di Emiliano Alessandroni
In questi giorni un vespaio di polemiche sta investendo la famiglia Soumahoro per le ragioni che già conosciamo e di cui i grandi media stanno offrendo ampi e particolareggiati resoconti.
La polemica, come spesso accade, ha attecchito anche a sinistra, e anche nella sinistra cosiddetta radicale.
Il paese sembra improvvisamente divenuto l’immagine della regolarità, della coerenza e dell’integrità morale: tutti indignati di fronte a qualcosa che sembra spaventoso e mai visto.
O, in alternativa, tutti pronti a soffiare sul fuoco dell’apoliticismo più becero ed elementare, ripetendo ad ogni occasione che in fondo sono tutti uguali e che, come si suol dire, “il più pulito ha la rogna”.
Ma forse, quantomeno a sinistra, prima di prendere parola per unirsi alla ventata di crocifissione che si sta sollevando, sarebbe il caso come minimo di porsi una domanda: gli attacchi, o se si vuole le pur legittime critiche, che ormai all’unanimità vengono rivolte ad Aboubakar, hanno lo scopo di rendere più solida e coerente la duplice lotta contro il razzismo e lo sfruttamento del lavoro, o di denigrarla per soffocarla nella culla? Hanno lo scopo di spianare la strada ad una più vigorosa battaglia per la dignità di quegli esseri umani che vengono quotidianamente imbarbariti dalle nostre società occidentali o per sottrarle mordente?
Al di là dei buoni propositi soggettivi di ognuno di noi, sembra che sia la seconda ipotesi a trionfare oggettivamente.
Ma soprattutto sembra trionfare anche qualcos’altro: sembrano trionfare il soggettivismo e la personalizzazione della politica.
Per cui non contano più le linee programmatiche a cui si tenta di dare forma, ma soltanto la pulizia del volto del singolo rappresentante di turno. L’integrità morale della persona, più del progetto sistemico di cui essa sarebbe il veicolo.
Oggi tutti noi avremmo ben poca cognizione di che cosa sia lo sfruttamento del lavoro senza l’opera di Karl Marx, il quale dal canto suo, si manteneva in vita e aveva la possibilità di scrivere soltanto grazie al denaro fornitogli da Engels, proprietario di un’azienda. Ebbene, crediamo che nella ditta “Ermen & Engels” i conti fossero tutti a posto, che i pagamenti fossero assolutamente regolari e che non esistesse alcuna forma di sfruttamento lavorativo? E crediamo che Marx non sapesse nulla di che cosa avveniva nelle fabbriche del suo amico da cui riceveva i soldi?
Gettiamo allora a mare anche tutta l’opera di Marx ed Engels, i loro scritti come le loro lotte politiche?
Naturalmente Soumahoro non è Marx e probabilmente neppure gli si avvicina, ma la maniera soggettivista con cui noi oggi ci rapportiamo ai problemi del nostro tempo è molto simile a quella che imperversava già ai tempi di Marx e che Marx aveva già ampiamente criticato.
Credere che i problemi dipendano dal capitalista (dalla volontà del proprietario, dalle sue decisioni, dalla sua cattiveria o bontà), significa assolvere la natura intimamente contraddittoria e disumana del capitalismo stesso, che dovrebbe invece costituire il vero bersaglio di ogni lotta di emancipazione.
Ma già, proprio il buon vecchio Marx, spiegava a suo tempo queste cose:
“Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.
Il problema, dunque, risiede nei rapporti sociali capitalistici che devono essere messi in stato d’accusa, che devono essere superati, non nella cattiveria della persona che si trova a dirigere una determinata azienda, per cui basterebbe sostituire quella persona malvagia con una persona di animo più gentile e tutta la questione dello sfruttamento lavorativo sarebbe risolta.
Questo è il messaggio che sta passando nella vicenda Soumahoro: l’ingiustizia non appartiene al DNA del sistema che occorre superare ma alla volontà della singola persona che la perpetra. Così il sistema è sempre salvo e integerrimo: sono gli individui che sbagliano.
A ben vedere, della lotta politico/sociale di cui Aboubakar si è reso promotore il paese avrebbe un disperato bisogno: di quel tipo di lotta politica, non di modelli antropologici in concorso per il conseguimento della santità.
Sembra invece che a volte la sinistra, anche quella radicale, brancoli nel buio, andando alla ricerca più di santi che di lotte politiche.
Il limite di Soumahoro, non risiede in ciò che accade o è accaduto nella cooperativa della compagna, ma nella forma ancora limitata, eppure già di per sé scomoda, della sua lotta.
Come nell’antirazzismo del primo Martin Luther King, il cui sogno si inseriva esplicitamente dentro gli steccati dell’“American dream”, così la lotta di Soumahoro assume le sembianze, almeno per il momento, più di una richiesta di cooptazione dentro l’impero dei dominanti, che di una lotta per il riconoscimento a 360 gradi dei dominati (di una lotta vale a dire in grado di abbracciare anche le spinte anticolonialiste e antimperialiste dei popoli e dei paesi del Terzo Mondo che tentano di scrollarsi di dosso il giogo americano/occidentale). Nessuna parola infatti sulla guerra, sul rischio di olocausto nucleare planetario, sullo sfruttamento e la schiavizzazione che l’Occidente ha operato per secoli sul resto del pianeta, costruendo a suon di deportazioni e genocidi la propria opulenza.
La lotta sociale di Soumahoro e il suo antirazzismo, non sono ancora coniugati con nessuna lotta anticolonialista e antimperialista. Nessuna critica agli Usa e alla politica dell’Occidente, ma quasi una richiesta di essere ammesso, assieme alla propria gente, nel sacro impero del mondo euroatlantico.
Il corso della guerra in Vietnam cambiò tuttavia, a suo tempo, la prospettiva di Martin Luther King, che cominciò a denunciare anche la guerra degli Usa, ad appoggiare la resistenza vietnamita, ad avvicinarsi alle idee di Du Bois e dei marxisti; quindi venne ucciso.
Non è detto, sperando che l’esito sia naturalmente meno tragico, che anche Soumahoro, pur tenendo conto delle dovute proporzioni, non possa maturare politicamente nello stesso modo, arrivando a coniugare anche lui l’antirazzismo e le lotte sociali, con l’anticolonialismo e l’antimperialismo.
Certo è che se noi contribuiamo ad appiccare il fuoco sulla sua lotta politica per quanto accade o è accaduto nella cooperativa della moglie, questa auspicata maturazione non la potremo vedere mai e la stessa lotta a cui egli ha avuto il merito di aver ridato respiro, verrà travolta da un’ondata di qualunquismo, apoliticismo e soggettivismo dilaganti dai quali sarà sempre più difficile riprendersi.
